Difficile immaginare a gennaio che nel volgere di pochi mesi avremmo tutti affrontato una vera e propria rivoluzione nel modo di lavorare. Da anni ci occupiamo di progetti di smart working e da anni constatiamo quanta differenza ci sia tra le aziende che hanno deciso di abbracciare questo nuovo strumento organizzativo e non.
Le prime con un approccio globale e circolare coinvolgente spazi, persone, tecnologia e organizzazione del lavoro mentre le seconde vedono lo smart working – nella specifica accezione del lavoro agile (così come del telelavoro) – solo come uno strumento di gestione e regolazione del rapporto di lavoro. Utile, quest’ultimo, come l’esperienza di questi mesi ha messo in evidenza, per assicurare la continuità delle attività attraverso il lavoro da remoto, ma di fatto svincolato dalle sue peculiari componenti organizzative. Perché lo smart working, in senso proprio, non è che l’occasione per abbracciare una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro contribuendo così a rendersi più efficaci, produttivi e, proprio grazie alla flessibilità, anche più resilienti.
Non bisogna farsi scoraggiare (o suggestionare) dalle ricerche – comunque utili e necessarie – che hanno messo in evidenza in questi mesi pregi ma anche difetti dello smart working: case troppo piccole, commistione con gli impegni familiari che hanno gravato molto sulla popolazione femminile, isolamento e frustrazione, super-lavoro, pay-gap. E’ chiaro che la dimensione unidirezionale dello smart working sperimentata in questi mesi nella forma del lavoro domiciliare non è vero smart working. Nell’accezione “emergenziale” se ne è compresa la finalità. Ma proprio perché “emergenziale”, in questa sua connotazione si tratta di una modalità di lavoro che va comunque organizzata in tutte le sue componenti (spazi, tecnologia, persone) ma che è destinata a rimanere circoscritta alla particolare situazione di questi mesi. Così come le disposizioni speciali che sono state introdotte dai diversi decreti per tutelare le persone più vulnerabili e maggiormente a rischio.
Come passare dalla fase di sperimentazione emergenziale allo smart working a regime
Una volta terminata la fase acuta dell’emergenza si è però compreso come alcune delle caratteristiche proprie dello smart working siano oggi le componenti più idonee a supportare le fasi purtroppo altalenanti di quello che tutti auspicano essere un ritorno alla normalità. Una normalità che non ha niente a che vedere con quella pre-COVID perché il mondo e il lavoro sono ormai cambiati, ma una nuova normalità. Quest’ultima dovrà accompagnarci nella presa di coscienza di un nuovo modo di lavorare, essenziale per transitare verso il lavoro del futuro in cui tecnologia, competenze e flessibilità organizzativa saranno il punto di forza di imprese e individui.
Smart working, propriamente non è lavoro da casa, ma flessibilità di tempo e di spazio nell’esecuzione della prestazione. Il che significa lavoro in sede, fuori sede, da casa, ma anche lavoro per alcuni periodi di tempo al di fuori dei più grandi centri urbani. Questa flessibilità spazio-temporale stimola le energie positive, la capacità di prendersi dei momenti di pausa, di socializzazione e di riposo, stimolando produttività, riflessione e creatività.
Questo nuovo modo di lavorare potenzialmente influirà su diversi ambiti: si pensi alle congestioni del trasporto urbano (già oggi molto ridotto), all’edilizia dedicata alla creazione di spazi di co-working anche fuori dai grossi centri urbani (oggi poco avvezzi a queste strutture), ma anche al ripensamento delle strutture turistiche e ricettive che potranno riconvertire molti dei loro spazi per consentire anche con pacchetti dedicati al rilancio del settore, il lavoro da remoto. Ma si pensi anche ai progetti – già in atto – di ripopolamento dei piccoli centri e delle città del Sud che assicurano una migliore e meno costosa qualità della vita.
La rivoluzione ormai è già in atto, alcune aziende lo hanno già previsto come modalità strutturale di lavoro fino a luglio 2021 (Google). Non resta che coglierne le potenzialità attingendo agli strumenti giuridici che abbiamo già a disposizione per accompagnare questo modo di lavorare.
Regolamento o accordo sindacale?
Regolamento interno e accordo individuale necessariamente collegati e, quindi fonti di regolazione – negoziale – dell’interesse aziendale e di quello individuale nel riscrivere e customizzare la nuova organizzazione del lavoro. In questa loro connotazione che li lega indissolubilmente il regolamento aziendale diviene atto condiviso e non unilaterale, a patto di seguire un processo di co-costruzione dello stesso, essenziale per accompagnare qualsiasi forma di sperimentazione. Il regolamento, infatti, è modificabile e adattabile man mano che la sperimentazione va avanti. L’accordo sindacale che pure da molte parti si sente a gran voce invocare – anche nella forma dell’accordo quadro – non ha queste potenzialità (tanto è vero che anche la legge n. 81/2017 non lo ritiene strumento principale di regolazione del lavoro agile).
Al centro di qualunque progetto di Smart Working di successo ci sono infatti diverse variabili, tutte da prendere in considerazione ai fini della sua regolazione:
- le persone,
- gli spazi,
- la tecnologia,
- i comportamenti.
L’approccio metodologico più adeguato per i progetti di smart working, anche e soprattutto dopo l’esperienza di questi mesi, parte dall’ascolto delle persone e quindi, da un processo di co-creazione del regolamento (e dei connessi accordi individuali) con i lavoratori che poi dovranno applicarlo. Per essi diviene fondamentale conoscere quale sarà la cornice di riferimento entro la quale potranno organizzare la loro giornata di lavoro, gli obiettivi, l’orario di lavoro, i tempi di disconnessione, il rapporto con i colleghi ed i manager, la tecnologia e l’uso in sicurezza degli strumenti e di tools indispensabili per sostenere il lavoro e la collaborazione da remoto senza vincoli di tempo e di spazio. Per fare ciò, per dare concretezza al processo di “customizzazione” necessario in tutti i progetti di smart working è utile organizzare delle sessioni di ascolto, di team coaching, di retrospettiva. Tutte finalizzate a far emergere le caratteristiche del lavoro e le aspettative e le esigenze dei singoli in relazione alla flessibilità organizzativa che l’azienda ha in mente di realizzare a regime, una volta terminata la fase di adattamento post-COVID legata anche all’attuazione dei protocolli di sicurezza.
Il sistema di valori quale driver dei progetti
Il nuovo modo di lavorare, le sue criticità e i suoi correttivi entrano così nel sistema dei valori dell’impresa. Gli stessi che trovano espressione nelle altre Policy e regolamenti interni (Privacy, Sicurezza, Codice Etico, Codice di comportamento) e trovano così una loro collocazione sistematica nel complesso delle regole che governano il lavoro delle persone di quella specifica azienda. Fattori di identità e di appartenenza fondamentali per sostenere il lavoro del futuro parzialmente in sede e parzialmente fuori sede.
Per tale motivo è indispensabile tenere sempre al centro le persone, concentrarsi sulle loro aspettative, sulle paure, sui comportamenti, per aiutarli a costruire quella flessibilità personale che è requisito indispensabile per il successo di questa forma di organizzazione del lavoro. Chiedendo loro di portare alla luce, secondo il proprio sistema di valori, le sfide, le opportunità, i correttivi che ciascuno vede necessari per sé e per l’azienda.
Approccio organizzativo, circolare e globale che oggi più che mai diviene fondamentale per il lavoro di tutti.
Se ti sei perso l’articolo precedente, Cosa è oggi lo smart working dopo la pandemia, puoi trovarlo qui.