Un po’ alla volta ci stiamo riappropriando del valore delle nostre giornate. Abbiamo trascorso un anno e mezzo lavorando da remoto, con una connessione pressoché costante. Abbiamo dato valore e significato al termine “disconnessione” – se non fosse stato ancora abbastanza chiaro soprattutto declinato come dovere di disconnessione, come ho già scritto in altro approfondimento specifico dedicato a questo tema. Abbiamo compreso che il benessere risiede in questo diritto/dovere fondamentale che vuol dire, prima di tutto, rispettare (e far rispettare) le pause, rispettare (e far rispettare) l’orario di lavoro e i tempi di non lavoro, che siano condivisi con il capo e i colleghi, che siano quelli che pratichiamo abitualmente in azienda o quelli concordati per il lavoro da remoto.
Disconettersi per conciliare
Che ci consentano anche la conciliazione vita-lavoro o di immergerci nella natura. Che siano i meccanismi di gestione del tempo che ci consentano di mangiare con attenzione al gusto del cibo oppure che ci consentano di giocare con nostro figlio e di seguirlo negli studi, così come quelli che ci consentano di concentrarci su un compito, che sia di lavoro o di non lavoro. Perché il nostro cervello per lavorare bene ha bisogno di pause. Vere pause.
Forse chi si è dato l’opportunità di sperimentare il vero “smart working”, chi ne ha compreso il vero valore in termini di autonomia, responsabilità, fiducia, collaborazione (e mi riferisco ad entrambe le parti del rapporto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore), può oggi affrontare con maggiore consapevolezza alcune delle possibili evoluzioni di questo straordinario modello di organizzazione del lavoro che la pandemia ha finalmente sdoganato.
La prima evoluzione
La prima evoluzione dello smart working è quella che in letteratura si inizia a definire “modello ibrido”. Qui è necessario fare una precisazione. Il termine “lavoro ibrido” è comparso in questi ultimi anni in molte occasioni a definire il lavoro attraverso piattaforma (nella maggior parte dei casi a definire in realtà il lavoro dei rider) perché di fatto a metà tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. Avendo già nell’ordinamento giuridico il lavoro parasubordinato (le cococo), alcuni hanno preferito iniziare a declinare il lavoro dei rider (che propriamente sarebbe in base alla legge lavoro autonomo ma che alcuni player del settore stanno iniziando ad inquadrare nell’ambito del lavoro subordinato, considerata anche la posizione assunta sul punto dalla giurisprudenza) proprio come lavoro “ibrido”. Perché autonomo per struttura ma con alcune delle tutele previste per il lavoro subordinato, quali minimo salariale e sicurezza.
Il “modello ibrido” cui invece si fa riferimento in letteratura come nuovo modello organizzativo del lavoro che include anche il lavoro da remoto (il vero smart working) è qualcosa di più ampio. Coinvolge anche la tecnologia e i comportamenti, il lavoro parte in presenza e parte in remoto caratterizzato dall’uso degli strumenti tecnologici e strutturato in base a obiettivi definiti. Quindi caratterizzato non dal controllo continuativo sulla prestazione ma dalla scomposizione del lavoro “per fasi, cicli e obiettivi” e dalla verifica del raggiungimento di specifici obiettivi. Lavoro per cui la presenza in sede non diviene funzionale all’oggetto della prestazione lavorativa, quanto piuttosto alla opportunità di gestire con autonomia e responsabilità i tempi e le fasi del lavoro. Accompagnandosi anche alla necessità di fare relazione, di creare occasione per sviluppare sinergie su specifici progetti, per partecipare a riunioni mirate.
Come stanno facendo molte grandi aziende le quali nel post-pandemia stanno prevedendo un progressivo rientro in sede nella consapevolezza dell’importanza che ha una parte di lavoro in presenza per la socializzazione, le relazioni e la creatività. Aziende che stanno sperimentando appunto soluzioni “ibride” che consentano di connettersi e di collaborare sia in presenza sia virtualmente.
La seconda evoluzione
La seconda importante evoluzione è quella data oggi dalla possibilità di allargare lo sguardo oltre i confini dell’ufficio e di guardare anche al territorio come spazio di lavoro. Territorio inteso come territorio vicino, un po’ più lontano e in alcuni casi anche oltre confine. Una delle tendenze che si è sviluppata nell’ultimo anno – proprio grazie alla costrizione del lavoro da remoto durante il primo lockdown – è quello del lavoro svolto non tanto dal domicilio abituale – quello in pratica vicino al luogo di lavoro – ma da altre dimore elette durante i mesi più duri di pandemia a dimore abituali.
Ecco che si sono così avviate interessanti esperienze di lavoro dai borghi, dai piccoli centri, dalla montagna, dal sud. In pratica da luoghi in Italia dove le persone – anche quelle che erano emigrate all’estero per lavoro – hanno scelto di tornare. È anche nata un’associazione – Sudworking o Southworking – la quale ha raggruppato proprio persone che rientrate in Italia, nei luoghi di origine, durante il primo lockdown, hanno dato voce agli aspetti positivi di questo ritorno e ripopolamento non solo del nostro bellissimo sud ma anche dei piccoli centri (connessione permettendo, pre-requisito tecnico indispensabile).
Potenziale oltre confine
L’immediata conseguenza che possiamo ricavare da questa tendenza avviata dalla pandemia e che sta iniziando a prendere consistentemente piede (alcuni hanno ad esempio deciso di trasferirsi in piccole città lontane non più di un’ora dalle metropoli più grandi quali Milano e Roma pur mantenendo il lavoro in queste città) è data dalla possibilità di sfruttarne le potenzialità anche oltre confine. Alcune aziende italiane hanno iniziato a ricercare talenti e figure tecniche particolarmente specializzate all’estero, decidendo però di lasciarle vivere nel paese di origine. Specularmente, molte aziende straniere e multinazionali stanno iniziando a valutare piani di assunzione che prevedono appunto di lasciare queste figure altamente specializzate nei loro paesi di origine.
Si tratta di accordi possibili che sono destinati a figure specifiche – freelance, figure senior, tecnici – ma che vanno ben strutturati. Non vi sono infatti complicazioni particolari dal punto di vista contrattuale se non l’attenta valutazione della legge applicabile al contratto di lavoro, mentre gli aspetti di maggiore complessità nascono dal punto di vista fiscale e previdenziale. La permanenza della residenza fiscale nel paese di origine influisce infatti sugli adempimenti fiscali – anche in capo al lavoratore – in base al modello OCSE, quando sia possibile (o non possibile) recuperare il credito di imposta per le imposte trattenute in Italia dal datore di lavoro che opera come sostituto d’imposta. Mentre è sul versante previdenziale che si generano le maggiori complicazioni, da sistemare in base alle convenzioni internazionali (ove esistenti) e ai regolamenti comunitari in materia di sicurezza sociale.
A volte si generano infatti complicazioni di difficile soluzione quando non vi sia la piena collaborazione interna tra le diverse istituzioni competenti nei vari paesi. Questo perché il luogo in cui risiede il lavoratore è di solito il luogo che governa l’accesso alle prestazioni previdenziali (ad esempio, malattia, maternità etc.). Mentre la copertura della prestazione – attraverso il pagamento dei contributi previdenziali – resta in capo al datore di lavoro nel paese in cui il lavoratore è stato assunto e dove si è perfezionato il contratto di lavoro.
Gestione consapevole
Solitamente residenza del lavoratore e sede del datore di lavoro coincidono nello stesso paese. Quando questi due elementi non coincidono, si possono creare delle complicazioni che possono essere gestite ma vanno prese in considerazione e valutate preliminarmente con attenzione in sede di perfezionamento del contratto di lavoro.
Il lavoro da remoto sta aprendo molte potenzialità di innovazione organizzativa, anche sul versante della gestione amministrativa del rapporto di lavoro. È bene prenderne consapevolezza.