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Hai già sentito parlare di Workplace Revolution?

È un approccio innovativo al Workplace Management e come ogni rivoluzione, anticipa i tempi e cambia le regole del gioco.

Ti aiuta a supportare in modo sicuro, grazie ai dati, le opzioni di scelta e gestione per il tuo spazio di lavoro.

Workplace Revolution significa:

  • Definire i metri quadri in modo innovativo, correlato al tempo di utilizzo
  • Progettare in base alle attività effettive dei vari spazi
  • Una gestione più puntuale dell’ufficio e del suo ecosistema

Il webinar

Durante il webinar conoscerai i dettagli operativi di questa modalità di progettazione e gestione degli spazi di lavoro. Ti racconteremo una esperienza concreta nella quale l’approccio Workplace Revolution ha avuto un ruolo determinante.

È un evento di Smartworking srl e Macroarea
In collaborazione con:
Real Estate Center del Politecnico di Milano

Con il patrocinio di:
FIABCI

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Foto di Proxyclick Visitor Management System su Unsplash

Che cosa significa gestire gli spazi di lavoro mentre il modo di lavorare è in continuo cambiamento?

Negli ultimi anni, la gestione degli spazi di lavoro è passata da concetti strutturali, funzionali e tattici a una visione più strategica, dinamica e adattiva.

L’evoluzione del workplace management è quindi da sempre una risposta alle mutevoli esigenze delle organizzazioni, dei mercati ma soprattutto delle persone. L’approccio alla creazione e gestione degli spazi di lavoro ha subito diverse trasformazioni: da uffici chiusi e statici, passando per gli open space fino a moderni spazi flessibili.

Ci siamo interrogati su come affrontare questo tema cruciale per le aziende e, per farlo, siamo partiti dall’inizio.

Che cos’è il workplace management?

Si tratta di una disciplina che si occupa di progettare, organizzare e ottimizzare gli spazi e le risorse, creando un ambiente di lavoro efficiente, funzionale e adatto alle esigenze specifiche di un’organizzazione e delle sue persone.

Dalla disposizione fisica degli uffici, all’utilizzo delle tecnologie, dalle politiche di flessibilità lavorativa fino alle strategie di coinvolgimento dei dipendenti, il workplace mangement ha come obiettivi:

  • Massimizzare la produttività
  • Migliorare la soddisfazione dei dipendenti
  • Favorire un ambiente lavorativo che supporti gli obiettivi aziendali.

L’approccio

Esiste un approccio classico alla gestione degli spazi di lavoro. Si tratta di una base, un punto di partenza dal quale le organizzazioni possono avviare processi di workplace management di senso.

È diviso in tre livelli:

Livello Strategico

risponde a sfide come: “Quando entro in azienda sento poca energia…”, “La nostra sede è poco attrattiva per i giovani”

Il tema sono quindi decisioni di alto livello che influenzano l’intera organizzazione. È il livello in cui delineano gli obiettivi a lungo termine e la visione complessiva dell’azienda, come ad esempio: decidere di adottare un modello di lavoro ibrido per migliorare la flessibilità delle persone.

Livello Tattico

risponde alle sfide come: “Servirebbero almeno due sale riunioni in più”, “Gli spazi in sede non ti permettono di collaborare”

Questo livello riguarda la traduzione delle decisioni strategiche in azioni concrete. Si tratta di sviluppare piani e procedure che aiutino a raggiungere gli obiettivi strategici. Implementare politiche specifiche per supportare il lavoro flessibile, come giorni di lavoro da remoto o la creazione di spazi di lavoro collaborativo sono attività da livello tattico.

Livello Operativo

risponde alle sfide come: “In questi uffici fa sempre o troppo caldo o troppo freddo…”, “Come faccio a prenotare la sala riunioni?”

Mette in pratica ciò che è stato deciso nei livelli strategico e tattico. Vengono gestite le attività quotidiane in modo più efficente possibile, in modo che tutto funzioni senza intoppi. Esempi di livello operativo sono la gestione della manutenzione degli ambienti, rendere disponibili materiali di consumo e strumenti per le esigenze dei singoli spazi e uffici.

Workplace Revolution: il webinar

Approfondendo ognuno dei tre livelli, ci siamo resi conto che il workplace management ha molto a che fare con tematiche quali change management, lavoro agile e ibrido, innovazione organizzativa, brand differentiation.

Crediamo sia necessario sviluppare progetti che prendano spunto dai tre livelli e siano sufficentemente agili da governare i cambiamenti rapidi e improvvisi, così flessibile da gestire piccole e grandi rivoluzioni all’interno delle organizzazioni.

Ti aspettiamo quindi per raccontarti i primi passi dal workplace management verso la workplace revolution: decisioni strategiche, azioni tattiche e operazioni quotidiane che, ben progettate, conducono a una gestione efficiente, una vera e propria rivoluzione degli spazi in cui le persone lavorano e si connettono.

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Settimana corta lavorativa, non solo nelle multinazionali.

Noi di Smartworking srl – specializzati in flessibilità lavorativa – siamo da subito tra i sostenitori e promotori dell’iniziativa.

Dopo il successo del primo esperimento britannico, con il recente plauso del sindacato Cisl, anche in Italia si sta muovendo qualcosa così da allargare lo spettro delle aziende potenzialmente interessate.

Tra i pionieri nel settore socio-assistenziale e sanitario, Fondazione Colleoni ha da poco istituito la settimana corta nella sua sede centrale. Ne parliamo con Paolo Cerruti, Direttore Generale.

Com’è nata l’iniziativa della settimana corta?

“Nella primavera del 2022, dopo due anni per noi incredibilmente faticosi a livello organizzativo ed economico a causa del Covid. A seguito del blocco degli straordinari per tutti gli uffici di staff, con la Responsabile HR abbiamo pensato all’introduzione della “Settimana Corta” per ridare spinta e motivazione ai nostri collaboratori. La proposta è stata accolta con grande entusiasmo sia dal Consiglio di Amministrazione che dai collaboratori della sede direttamente interessati”.

Da dove siete partiti?

“Siamo partiti con una esperienza pilota di 3 mesi, gestita in autonomia dato il numero limitato di dipendenti nella sede centrale di Castano Primo. La notizia agli interessati è stata comunicata tramite una riunione, nella quale abbiamo anche condiviso le nuove modalità di gestione della settimana che consiste nella riduzione di una mezz’ora della pausa pranzo e ingresso, in modo da mantenere il monte ore totale settimanale”.

Siete pionieri nel settore, qual è stata la sfida più grande da affrontare?

“La sfida maggiore è stata – ed è ancora – quella di relazionarci con le aree operative (ovvero i servizi gestiti dalla Fondazione come residenze per anziani, centri diurni, assistenza domiciliare, case albergo…) che faticano a comprendere la chiusura della sede centrale di venerdì. Un’assenza mai totale data la natura della nostra attività: da sempre infatti – weekend compresi – sono attive tutte le reperibilità necessarie. Il settore è un settore ancora molto tradizionalista come impostazione del lavoro, dove la “presenza” la fa ancora da padrona sui processi, l’obiettivo è quello di creare un equilibrio non basato sull’emergenza (tipico: dalla struttura devo avere subito una risposta dalla sede) ma basato su programmazione e procedure”.

VisionAlps è la prima iniziativa B2B in Italia dedicata alla “digital transformation of Alps” e il loro podcast approfondisce proprio le attuali tematiche legate alla trasformazione digitale delle Alpi. Per una puntata è stato ospite Federico Bianchi, Founder di Smartworking srl che supporta l’integrazione dello smart working a livello aziendale già nel periodo pre-pandemia. Oggi ci racconta come punti a soddisfare le nuove esigenze delle imprese, risolvendo non solo problematiche infrastrutturali ma anche organizzative. Per ascoltare la puntata del podcast clicca QUI.

Partiamo appunto da Smartworking srl, che cos’è, quando è nata e perché è un dato importante da sottolineare?

Sì, grazie di questa puntualizzazione. Noi siamo nati nel 2015, quando il mondo cominciava ad affrontare le tematiche del lavoro a distanza. Tematiche nate tanti anni fa che oggi in Italia stanno cominciando a fare breccia nelle organizzazioni. Il nostro approccio è quello di aiutare le organizzazioni e supportarle rispetto ai nuovi modi di lavorare, attraverso un percorso di facilitazione, ma anche fornendo servizi e strumenti per affrontare le nuove modalità di lavoro che vedono nel lavoro per obiettivi e nel concetto di purpose gli elementi caratterizzanti.

In questo articolo puoi leggere nel dettaglio cosa vuol dire smart working per noi.

Nati nel 2015 prima della pandemia che sappiamo tutti essere stato un forte acceleratore per quanto riguarda lo smart working. Ma quali erano i problemi che pre-Covid avete riscontrato nell’organizzare questa modalità di lavoro?

Prima del Covid c’era sostanzialmente un forte timore da parte dell’organizzazione. Ci si chiedeva se ci si potesse fidare delle proprie persone e c’era sempre una paura rispetto al fatto di far lavorare le persone da casa. Poi ogni tanto succedeva che alcune persone non stessero bene un giorno della settimana, c’era però una consegna importante, il portatile era a casa e a quel punto faceva comodo che quel singolo completasse le attività, seppur da casa. 

Se andate ad intervistare aziende che stavano avviando i progetti prima del Febbraio 2020, vi diranno che il grande timore riguardava diversi temi: Chi lo può fare? Per quanti giorni? Solo le figure apicali? In certi contesti invece poi la pandemia ci ha messo di fronte alla necessità. 

Io conosco aziende che prima erano consapevolmente contrarie al fatto di avviare progetti di smart working e che poi, di fronte alla pandemia, hanno iniziato a rastrellare il mercato alla ricerca di computer portatili perché altrimenti l’attività della propria azienda si sarebbe inevitabilmente bloccata. Quindi di fronte alla necessità si è abbracciata la circostanza. Il nostro ruolo pre pandemia era molto diverso da quello di adesso. Allora era quello di aiutare le organizzazioni nel buttare il cuore oltre l’ostacolo, come si dice. A valle di una verifica tecnologica per essere certi che ci fossero le condizioni minime per poter lavorare in un certo modo, quello che dicevamo all’organizzazione era: si può fare, si deve fare, perché se non lo fate vuol dire che non vi ponete la domanda di come sarà il lavoro del futuro. 

Io ho due figli di 8 e 10 anni e mi auguro che il loro modo di lavorare non sarà più vincolato allo spazio e al tempo, ma sarà un modo di lavorare più libero, più legato agli obiettivi. Oggi il mio dubbio è quanto le organizzazioni saranno pronte, tra una decina/dozzina di anni, ad affrontare questo cambiamento?

Noi abbiamo sempre spinto le nostre aziende a provare e sfruttando la sperimentazione come contesto all’interno del quale cogliere le informazioni necessarie per poter capire quali fossero i limiti di questo modo di lavorare, quali problematiche portava con sé e così via. La connettività è quello che mi serve per poter lavorare da remoto. Ho cambiato il mio modo di lavorare, magari sono diventato anche freelance nel frattempo, quindi ho abbandonato il lavoro dipendente e ho deciso di essere un consulente e questa cosa mi permette di affrontare il lavoro in maniera diversa. Ma la domanda è: nelle organizzazioni, che cosa succede? E questo è il grande tema. Anche perché il il rischio è che se non si fa veramente una transizione nei modi di lavorare e non si passa ad un lavoro per obiettivi con i giusti strumenti e che abbia anche la digitalizzazione come obiettivo, si ritorni un po’ alle vecchie modalità.

Ci troviamo oggi, dicevi prima, in una fase ibrida, nel senso che abbiamo scoperto quali sono i vantaggi dello smart working però allo stesso tempo si è anche tornati negli uffici e questa può rappresentare un’ulteriore difficoltà?

Assolutamente sì, infatti diciamo che il lavoro, come si usa dire adesso, ibrido è sicuramente più complesso del lavoro totalmente in remoto. Ovvero, noi prima eravamo abituati pre Covid a lavorare principalmente in presenza, il lavoro durante la pandemia ci ha fatto capire che la maggior parte, o quantomeno tutte le attività che hanno carattere individuale, si possono svolgere meglio da casa, in solitudine, piuttosto che in un contesto di ufficio dove c’è chiaramente disturbo e interruzioni, e la produttività può così di fatto aumentare.

Il problema dove sorge? Il problema sorge quando io mi devo relazionare e collaborare. La collaborazione può essere risolvere un problema tecnico, risolvere un problema tecnico/ amministrativo, oppure essere creativi oppure fare una riunione di team. Ecco qui il sistema comincia a scricchiolare, nel senso che prima erano abituati alla presenza, durante il Covid siamo stati abituati a essere ciascuno nella propria abitazione e diciamo che in qualche modo si è portato a casa l’obiettivo. 

Adesso siamo in una situazione ibrida, nel senso che io organizzo una riunione e non ho la certezza che il 100% delle persone sia in presenza o da remoto. Questa cosa, tra l’altro, ha anche un aspetto tecnico non banale, cioè che una riunione dove 3 persone sono in presenza e 3 sono da remoto rischia di essere molto poco efficace dal punto di vista tecnico se non ho gli strumenti adeguati.

Quindi è un problema non tecnologico, è un problema organizzativo?

Esatto, perché il problema tecnologico, come ad esempio nella riunione ibrida, entra in maniera prepotente, ma il vero tema è quello organizzativo.

Le organizzazioni devono imparare ad affrontare la gestione dei propri team in modo tale che la riunione sia un momento nel quale si condividono problematiche, opportunità, necessità e in un certo senso ciascuno si assume la propria responsabilità rispetto a degli obiettivi che il team deve raggiungere. 

Solo a quel punto ciascuno è libero di lavorare nel tempo e nei modi che preferisce. Questo vuol dire lavorare per obiettivi. Invece la riunione non è efficace se intesa come continuo allineamento, perché non sono magari chiari gli obiettivi che dobbiamo raggiungere o questi sono in continuo cambiamento.

Le riunioni svolte in maniera ibrida sono sicuramente meno efficaci, quindi c’è un po’ la tendenza a ritornare in ufficio perdendo l’occasione di fare un cambio di paradigma, di passare dal lavoro, appunto basato sui task, sulle attività, in un certo senso assegnate ad una logica per cui il manager si pone come colui che cerca di tirar fuori il meglio dalle proprie persone e creare il contesto affinché ciascuno svolga al meglio il proprio lavoro. E poi ciascuno lo realizzi ovviamente.

In tutto questo il vostro ruolo è anche quello di valorizzare gli aspetti positivi e limitare invece quelle che possono essere le controindicazioni?

Sì, assolutamente, il nostro è un approccio non dogmatico.

La cosa importante è che le persone e le organizzazioni siano consapevoli di ciò che funziona e di ciò che non funziona al proprio interno e se lo dicano in faccia. In sintesi: Io vivo un’esperienza di lavoro ibrido, ci saranno delle cose che funzionano molto bene, altre che non funzionano. L’importante è cominciare a dirsele e poi affrontare la crescita dell’organizzazione per fare in modo che queste problematiche vengano risolte. 

Il nostro ruolo è in un certo senso essere un po’ degli specchi, chiaramente degli specchi che portano attenzione sui temi centrali evitando di focalizzarsi sulle cose futili. Però il tema è essere capaci di cambiare, perché tra l’altro il futuro delle organizzazioni è il continuo cambiamento, al di là dello smart working. Il mercato è in continua evoluzione e se io non sono in grado di ascoltarmi e ascoltare il mio mercato per capire quali sono i cambiamenti che devo apportare ai miei prodotti e ai miei servizi rischio di andare fuori dal mercato. E se io non ho un meccanismo di ascolto dei clienti e dei lavoratori non avrò mai un approccio cosiddetto agile al mio business. 

Quindi è comunque una cultura dell’innovazione, non è la cultura dello smart working, la cultura dell’innovazione che deve entrare in azienda, sia, nei processi primari, ma anche nel modo di lavorare.

Un po’ alla volta ci stiamo riappropriando del valore delle nostre giornate. Abbiamo trascorso un anno e mezzo lavorando da remoto, con una connessione pressoché costante. Abbiamo dato valore e significato al termine “disconnessione” – se non fosse stato ancora abbastanza chiaro soprattutto declinato come dovere di disconnessione, come ho già scritto in altro approfondimento specifico dedicato a questo tema. Abbiamo compreso che il benessere risiede in questo diritto/dovere fondamentale che vuol dire, prima di tutto, rispettare (e far rispettare) le pause, rispettare (e far rispettare) l’orario di lavoro e i tempi di non lavoro, che siano condivisi con il capo e i colleghi, che siano quelli che pratichiamo abitualmente in azienda o quelli concordati per il lavoro da remoto.

Disconettersi per conciliare

Che ci consentano anche la conciliazione vita-lavoro o di immergerci nella natura. Che siano i meccanismi di gestione del tempo che ci consentano di mangiare con attenzione al gusto del cibo oppure che ci consentano di giocare con nostro figlio e di seguirlo negli studi, così come quelli che ci consentano di concentrarci su un compito, che sia di lavoro o di non lavoro. Perché il nostro cervello per lavorare bene ha bisogno di pause. Vere pause.

Forse chi si è dato l’opportunità di sperimentare il vero “smart working”, chi ne ha compreso il vero valore in termini di autonomia, responsabilità, fiducia, collaborazione (e mi riferisco ad entrambe le parti del rapporto di lavoro, datore di lavoro e lavoratore), può oggi affrontare con maggiore consapevolezza alcune delle possibili evoluzioni di questo straordinario modello di organizzazione del lavoro che la pandemia ha finalmente sdoganato.

La prima evoluzione

La prima evoluzione dello smart working è quella che in letteratura si inizia a definire “modello ibrido”. Qui è necessario fare una precisazione. Il termine “lavoro ibrido” è comparso in questi ultimi anni in molte occasioni a definire il lavoro attraverso piattaforma (nella maggior parte dei casi a definire in realtà il lavoro dei rider) perché di fatto a metà tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. Avendo già nell’ordinamento giuridico il lavoro parasubordinato (le cococo), alcuni hanno preferito iniziare a declinare il lavoro dei rider (che propriamente sarebbe in base alla legge lavoro autonomo ma che alcuni player del settore stanno iniziando ad inquadrare nell’ambito del lavoro subordinato, considerata anche la posizione assunta sul punto dalla giurisprudenza) proprio come lavoro “ibrido”. Perché autonomo per struttura ma con alcune delle tutele previste per il lavoro subordinato, quali minimo salariale e sicurezza.

Il “modello ibrido” cui invece si fa riferimento in letteratura come nuovo modello organizzativo del lavoro che include anche il lavoro da remoto (il vero smart working) è qualcosa di più ampio. Coinvolge anche la tecnologia e i comportamenti, il lavoro parte in presenza e parte in remoto caratterizzato dall’uso degli strumenti tecnologici e strutturato in base a obiettivi definiti. Quindi caratterizzato non dal controllo continuativo sulla prestazione ma dalla scomposizione del lavoro “per fasi, cicli e obiettivi” e dalla verifica del raggiungimento di specifici obiettivi. Lavoro per cui la presenza in sede non diviene funzionale all’oggetto della prestazione lavorativa, quanto piuttosto alla opportunità di gestire con autonomia e responsabilità i tempi e le fasi del lavoro. Accompagnandosi anche alla necessità di fare relazione, di creare occasione per sviluppare sinergie su specifici progetti, per partecipare a riunioni mirate.

Come stanno facendo molte grandi aziende le quali nel post-pandemia stanno prevedendo un progressivo rientro in sede nella consapevolezza dell’importanza che ha una parte di lavoro in presenza per la socializzazione, le relazioni e la creatività. Aziende che stanno sperimentando appunto soluzioni “ibride” che consentano di connettersi e di collaborare sia in presenza sia virtualmente.

La seconda evoluzione

La seconda importante evoluzione è quella data oggi dalla possibilità di allargare lo sguardo oltre i confini dell’ufficio e di guardare anche al territorio come spazio di lavoro. Territorio inteso come territorio vicino, un po’ più lontano e in alcuni casi anche oltre confine. Una delle tendenze che si è sviluppata nell’ultimo anno – proprio grazie alla costrizione del lavoro da remoto durante il primo lockdown – è quello del lavoro svolto non tanto dal domicilio abituale – quello in pratica vicino al luogo di lavoro – ma da altre dimore elette durante i mesi più duri di pandemia a dimore abituali.

Ecco che si sono così avviate interessanti esperienze di lavoro dai borghi, dai piccoli centri, dalla montagna, dal sud. In pratica da luoghi in Italia dove le persone – anche quelle che erano emigrate all’estero per lavoro – hanno scelto di tornare. È anche nata un’associazione – Sudworking o Southworking – la quale ha raggruppato proprio persone che rientrate in Italia, nei luoghi di origine, durante il primo lockdown, hanno dato voce agli aspetti positivi di questo ritorno e ripopolamento non solo del nostro bellissimo sud ma anche dei piccoli centri (connessione permettendo, pre-requisito tecnico indispensabile).

Potenziale oltre confine

L’immediata conseguenza che possiamo ricavare da questa tendenza avviata dalla pandemia e che sta iniziando a prendere consistentemente piede (alcuni hanno ad esempio deciso di trasferirsi in piccole città lontane non più di un’ora dalle metropoli più grandi quali Milano e Roma pur mantenendo il lavoro in queste città) è data dalla possibilità di sfruttarne le potenzialità anche oltre confine. Alcune aziende italiane hanno iniziato a ricercare talenti e figure tecniche particolarmente specializzate all’estero, decidendo però di lasciarle vivere nel paese di origine. Specularmente, molte aziende straniere e multinazionali stanno iniziando a valutare piani di assunzione che prevedono appunto di lasciare queste figure altamente specializzate nei loro paesi di origine.

Si tratta di accordi possibili che sono destinati a figure specifiche – freelance, figure senior, tecnici – ma che vanno ben strutturati. Non vi sono infatti complicazioni particolari dal punto di vista contrattuale se non l’attenta valutazione della legge applicabile al contratto di lavoro, mentre gli aspetti di maggiore complessità nascono dal punto di vista fiscale e previdenziale. La permanenza della residenza fiscale nel paese di origine influisce infatti sugli adempimenti fiscali – anche in capo al lavoratore – in base al modello OCSE, quando sia possibile (o non possibile) recuperare il credito di imposta per le imposte trattenute in Italia dal datore di lavoro che opera come sostituto d’imposta. Mentre è sul versante previdenziale che si generano le maggiori complicazioni, da sistemare in base alle convenzioni internazionali (ove esistenti) e ai regolamenti comunitari in materia di sicurezza sociale.

A volte si generano infatti complicazioni di difficile soluzione quando non vi sia la piena collaborazione interna tra le diverse istituzioni competenti nei vari paesi. Questo perché il luogo in cui risiede il lavoratore è di solito il luogo che governa l’accesso alle prestazioni previdenziali (ad esempio, malattia, maternità etc.). Mentre la copertura della prestazione – attraverso il pagamento dei contributi previdenziali – resta in capo al datore di lavoro nel paese in cui il lavoratore è stato assunto e dove si è perfezionato il contratto di lavoro.

Gestione consapevole

Solitamente residenza del lavoratore e sede del datore di lavoro coincidono nello stesso paese. Quando questi due elementi non coincidono, si possono creare delle complicazioni che possono essere gestite ma vanno prese in considerazione e valutate preliminarmente con attenzione in sede di perfezionamento del contratto di lavoro. 

Il lavoro da remoto sta aprendo molte potenzialità di innovazione organizzativa, anche sul versante della gestione amministrativa del rapporto di lavoro. È bene prenderne consapevolezza.

Avvocato giuslavorista ed esperta di lavoro agile
Articolo a cura dell’avv. Paola Salazar – Salazarlavoro