Partiamo da una premessa fondamentale: il lavoro da remoto che si è sperimentato nel corso della pandemia non è vero smart working

Il lavoro da remoto nella prospettiva del conflitto tra lavoro e famiglia

Tutti noi, chi più chi meno, abbiamo lavorato in questi mesi in remoto e, va detto, forzatamente da casa. La impossibilità di separare in alcuni casi gli spazi personali (fisici e mentali) da quelli lavorativi ha favorito il sorgere di momenti di inquietudine e a volte anche di frustrazione. Il tempo si è trasformato in una specie di continuum tra impegni familiari e lavorativi, riunioni on line, scadenze, telefonate, social, intrattenimento on line e off line. Si è così posto all’attenzione di tutti con forza rinnovata dalla pandemia il tema della “disconnessione”, considerando soprattutto il ruolo delle donne all’interno della famiglia e l’esigenza, sia durante i mesi di lockdown generale, sia durante i successivi periodi di chiusura settoriale e localizzata, di costruire migliori confini tra la vita e il lavoro (all’interno delle mura domestiche). Nelle scienze organizzative si parla in questi casi di “conflitto tra lavoro e famiglia” dovuto alla simultanea presenza di pressioni e richieste legate ai diversi ruoli ricoperti, con incidenza negativa sulla soddisfazione e sulla efficacia della persona. (Greenhaus e Beutell, 1985).

Ebbene, stando all’esperienza di questi mesi e alla necessità di non svilire la portata delle pur positive ricadute del lavoro da remoto sul benessere psico-fisico dell’individuo, sarebbe troppo riduttivo considerare il diritto alla disconnessione solo nei termini di una “pausa” dagli impegni di lavoro oppure dalla connessione (on line e off line). Il concetto di “pausa” nella modalità fluida di gestione del tempo che è ormai entrata nelle nostre case e nella nostra vita ha implicazioni organizzative di non poco conto. Dovendo (e potendo) essere applicata non solo avendo in mente la gestione dell’orario di lavoro (tra cui si collocano anche le prassi di chiusura dei server e la gestione delle “richieste del capo”…) ma anche avendo in mente una migliore gestione di alcuni impegni familiari – come il giardinaggio, la cucina e il gioco – così come alcune attività individuali che alimentano il pensiero creativo quali la meditazione, lo sport, il riposo, l’intrattenimento culturale.

Cosa è propriamente il diritto alla disconnessione?

Dovremmo quindi valutare cosa è propriamente il “diritto alla disconnessione” ed evitare di relegarlo ad un dettato normativo che svilisce la sua intrinseca natura concettuale, valida peraltro sia per le donne, sia per gli uomini. Perché sarebbe un errore andare a normare – come vogliono i più – il diritto alla disconnessione avendo solo in mente il lavoro femminile e l’impegno delle donne – purtroppo ancora molto significativo (dati ISTAT) –  nelle attività familiari e di cura. Sarebbe riduttivo perché non terrebbe nella dovuta considerazione il fatto che la nuova organizzazione del lavoro che è il portato più immediato della pandemia – lo smart working in senso proprio – si deve necessariamente nutrire di una chiara definizione del lavoro per obiettivi e sulla base di questo di una non trascurabile capacità di scomposizione del tempo (di lavoro e di non lavoro) per cicli. Presupposto fondamentale per dare valore alla disconnessione in tutte le sue più varie componenti lavorative e non lavorative.  

Quando sento da più parti che servono regole minime oppure che vanno garantiti i diritti delle donne mi accorgo che si trascurano due presupposti fondamentali

  1. che le regole minime esistono già; 
  2. che non vanno garantiti solo i diritti delle donne.

La legge sul lavoro agile prevede già il diritto alla disconnessione. È compito di chi deve applicarla e implementare i progetti definire con fiducia l’insieme delle regole che rendano effettivo e reale il diritto alla disconnessione in tutte le sue sfaccettature. 

L’art. 19, comma 1 della legge sul lavoro agile (la L. n. 81/2017) stabilisce che “l’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro”. La norma ci dice due cose importanti: da un lato, nella consapevolezza dei rischi derivanti da un eccesso di lavoro – questo sì non controllabile – ed al fine di scongiurare i rischi connessi al superamento dei limiti di durata – giornaliera e settimanale – della prestazione lavorativa, i quali incidono sulla salute dell’individuo per effetto proprio del possibile sovraccarico di lavoro dovuto all’assenza di controllo (cd. burnout), l’accordo di lavoro agile – e con esso il regolamento di smart working – devono introdurre meccanismi di gestione della prestazione da remoto che assicurino da parte del lavoratore il rispetto dei tempi di riposo (facendo leva anche sulla gestione flessibile dell’orario di lavoro), essenziali soprattutto per le nuove generazioni troppo abituate alla iper-connessione. Dall’altro, laddove si fa riferimento, invece, alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche, esorta ad adottare misure tecniche e organizzative, quindi a strutturare il lavoro proprio per fasi, cicli e obiettivi (art. 18, c. 1 L. n. 81/2017) al fine di garantire sia la disconnessione legata alla prestazione lavorativa e caratterizzata dai momenti di focus e concentrazione, sia la disconnessione funzionale alla conciliazione vita-lavoro. Quest’ultima essenziale non solo per assolvere agli impegni personali e familiari ma necessaria per alimentare il pensiero creativo.

Diritto alla disconnessione e dovere di disconnessione nella nuova organizzazione del lavoro

Il diritto alla disconnessione si compone pertanto di diverse sfaccettature che poggiano tutte su un presupposto fondamentale che deve essere alla base di qualsiasi progetto di smart working: l’abbandono del controllo sulla prestazione a favore di una maggiore autonomia e responsabilità dal lavoratore anche nella gestione dei propri tempi di lavoro. 

Specularmente, al diritto alla disconnessione si contrappone quindi un dovere di disconnessione che spetta al datore di lavoro disciplinare nel quadro della nuova organizzazione del lavoro per “fasi, cicli e obiettivi” che caratterizza il lavoro agile. Prevedendo in questo senso il rispetto da parte del management di determinate regole di comportamento che siano valori condivisi dell’organizzazione (quali ad esempio non pretendere risposte al telefono o alle e-mail a qualsiasi ora) così come momenti di relazione, socializzazione e perché no, di gioco fondamentali per creare anche a distanza senso di squadra, evitando l’isolamento e le frustrazioni derivanti dal “conflitto tra lavoro e famiglia”. 

La disconnessione è quindi un concetto assai complesso, quasi a voler sottolineare che non è possibile parlare di “disconnessione” se prima non siano state poste con sufficiente chiarezza – nell’accordo e regolamento di lavoro agile – le basi per rendere effettivo e realmente sperimentabile con modalità collaborative e flessibili il lavoro per obiettivi. Quest’ultimo è il presupposto per questa nuova forma di organizzazione del lavoro – anche attraverso una gestione dei tempi di lavoro, dei tempi di riposo, dei tempi di relazione, dei tempi di “irreperibilità”. Il tutto coerentemente con i valori che l’organizzazione vuole comunicare all’interno e all’esterno.

Così da gettare le basi per l’evoluzione stessa del diritto del lavoro nell’ambito della nuova organizzazione del lavoro e nell’ambito della moderna organizzazione dell’impresa cominciando a far leva in modo costruttivo su fattori oggettivi di misurazione della prestazione di lavoro in luogo della potenziale ed indistinta dilatazione del tempo che ad essa viene dedicato.

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Avvocato giuslavorista ed esperta di lavoro agile
Articolo a cura dell’avv. Paola Salazar – Salazarlavoro